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ISTITUTO PER LO STUDIO E LA RICERCA IN CAMPO GIURIDICO, ECONOMICO, AZIENDALE
Si riceve previo appuntamento
Via Tripoli n. 20 00199 Roma
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www.istitutostudigiuridicieconomiciaziendali.org @ All Right Reserved 2021 | Sito web realizzato da Flazio Experience
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CONOSCI E ADERISCI ALL'ASSOCIAZIONE
Lo Studio e la Ricerca in campo giuridico, economico e aziendale
È sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza
SOCRATE
Il Manifesto
Oltre duemila anni di storia dividono la nascita di Socrate (470 a.C) da quella di William Shakespeare (1564 d.C). Nel lungo arco di tempo, che separa il filosofo greco dal drammaturgo inglese, la storia aveva conosciuto lo sviluppo del pensiero filosofico, la nascita dell’Impero di Roma e l’affermarsi della scienza del diritto, la venuta al mondo di Cristo e il suo divino insegnamento, la Commedia dantesca, la scoperta di nuove terre; eppure, l’ignoranza veniva ancora percepita come un possibile male presente nell’uomo.
Il promotore del Sodalizio, nell’accingersi a stilare questo Manifesto, è cosciente, in primis, di «non sapere», ma anche della sua ferrea volontà di voler «conoscere» e così tentare di sconfiggere la propria e l’altrui «ignoranza». Nasce con questa prospettiva l' Istituto di studi e ricerche in campo giuridico, economico, aziendale.
Consapevole dei propri limiti, il promotore stesso, intende chiamare a raccolta altri uomini e donne di buona volontà, desiderosi di contribuire fattivamente alla piena realizzazione dell'ambizioso progetto di praticare e diffondere lo studio e la ricerca in campo giuridico, economico, aziendale . Alla pagina «Chi siamo» del Portale è pubblicato lo Statuto dell’Associazione, cui si rinvia per conoscerne dettagliatamente gli scopi.
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Pietro Fulciniti
DIAMO INPUT ALLO STUDIO E ALLA RICERCA
Con la formale costituzione e successiva registrazione dell’Associazione culturale, l’invito che rivolgo - in qualità di promotore del Sodalizio - a tutti gli Amici Soci (che auspico in continua crescita) è di cominciare a prendere coscienza della necessità di promuovere la cultura di cui hanno tanto bisogno gli uomini e le donne della nostra generazione e, soprattutto, quelli e quelle delle nuove generazioni. Senza tralasciare gli impegni professionali - che ciascuno di noi ha già, e che può ampliare oppure instaurare operando a contato virtuale con l’imprenditoria - anche la partecipazione alla vita associativa è un impegno e indice di credere nello studio e nella ricerca che sono alla base del sapere. Con questo mio modesto intervento spero di dare il minimo input a tale esigenza. Comunque: «Ad maiora semper».
§ I – L’«ignoranza» e la «conoscenza» nella storia del pensiero.
Parafrasando, si fa per dire, Esiodo (poeta contadino greco, forse contemporaneo di Omero) e la sua Θεογονία («In principio fu il Caos, poi venne l’ampio seno della Terra…...» riconosco che in principio fu la socratica «ignoranza» che mi spinse a progettare la costituzione dell’Associazione culturale denominata «Istituto per lo studio e la ricerca in campo giuridico, economico, aziendale»; poi la riscoperta della shakespeariana affermazione della «conoscenza», che eleva l’uomo, mi convinse a mettermi alla ricerca di altri uomini e donne che ne condividessero la realizzazione. Ha inizio così il cammino (che mi auguro non sia periglioso come quello di Ulisse) e con esso l’esplorazione dei due concetti (ignoranza e conoscenza), cui si lega quello di «intelligenza».
Apro una parentesi: l’attività di studio e ricerca, su cui troverà fondamento il concreto operare del singolo Socio nell’ambito dell’Istituto, non può prescindere dal considerare l’esistenza dei due anzidetti concetti, sempre presenti nella fenomenologia dell’agire di ciascuno di noi appartenenti alla specie umana. Chiusa la parentisi, ritengo poi utile concettualizzare l’ignoranza, punto di partenza del progetto di cui sopra.
Nell’età classica l’ignoranza (ἄγνοια) assumeva più sfaccettature: in Socrate essa era – come anticipato nel Manifesto dell’Associazione - la consapevolezza di non sapere. Egli, difatti, si domandava «….E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?» (Platone, Apologia di Socrate, 29b - traduzione di M. C. Pievatolo, Copyright © 2000 M. C. Pievatolo). Più tardi, in quella greco-romana, l’ignoranza assunse un significato più ampio: infatti, Luciano di Samosata, originario della Siria, retore e filosofo vissuto verso nel 125 d. C., sosteneva che il «parassitismo» è un’arte e che il precettore dei retori deve avere, come bagaglio di doti, l’ignoranza cui si somma l’alterigia e la sfrontatezza (cfr. M. Carrozza, Il Maestro dei Retori di Luciano: tecniche compositive e contaminazione dei modelli, in Minerva, Revista di Filologia Clàsica, 35 (2022), pag. 41). Prima e dopo la drastica affermazione shakespeariana, in cui l’ignoranza veniva concepita come maledizione divina, la non conoscenza fu teorizzata anche sotto il profilo della morale, e quindi nell’ignoranza del «bene» venne individuata l’unica causa possibile del «male». (Nei Dialoghi filosofici di Platone, a cura di G. Cambiano, Torino, 1970, pagg. 66 ss, si legge: «So invece che commettere ingiustizia e disobbedire a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta e cattiva. Perciò davanti ai mali che so essere mali non tornerò e non fuggirò mai quelli che non so se siano anche beni». Anche il filosofo olandese Baruch Spinoza, vissuto nel XVII secolo, accosta i concetti di «bene» e di «male», rispettivamente alla conoscenza e all’ignoranza. Quando si è schiavi dell’ignoranza si manifesta il male, sosteneva). Dunque, compito dell’uomo è agire sulla conoscenza al fine di dissipare l’ignoranza causa anche «dell’imperfezione apparente delle cose» (cfr. P. Martinetti, La religione di Spinoza. Quattro saggi a cura di A. Vigorelli, Milano, 2022, p. 113. ).
L’ossimoro «il sapere di non sapere» - con cui intendo concludere il paragrafo – racchiude sia la «conoscenza» sia l’«ignoranza», condizioni soggettive delle quali si sono occupati, in ordine di tempo, il filosofo greco e il drammaturgo inglese citati nel Manifesto inaugurale dell’Associazione. Un secolo prima che William Shakespeare condannasse apertamente l’ignoranza, in pieno umanesimo Niccolò Cusano, nell’opera in tre libri «De docta ignorantia», riteneva che la «dotta ignoranza» fosse il punto da cui aveva inizio la conoscenza. Nel I Libro, della citata opera, il filosofo, fra l’altro, affermava ...«nessun’altra dottrina più perfetta può sopraggiungere all’uomo (anche più diligente) oltre quella di scoprire di essere dottissimo della sua propria ignoranza: e tanto più uno sarà dotto, quanto più si saprà ignorante».
Se io so di non sapere, la mia ignoranza rivela qualcosa di positivo in me. In quel non sapere vi è in effetti nascosta la mia intelligenza, non sempre percepita come tale dagli altri. Il prefato termine deriva dal latino intelligere («intendere»), capire i propri limiti; se comprendo ciò e ne sono pienamente cosciente, tale condizione funge da stimolo per giungere poi ad una conoscenza, intesa come complesso di saperi che accetto come «dimostrati» se ho modo di affermare e comprovare che altri saperi siano da ritenersi non «falsi». Ma chi mi dà la certezza di essere nel giusto? Per non brancolare nel buio debbo ricorrere, ancora una volta, al pensiero filosofico. L’«epistemologia» (dal greco ἐπιστήμη -epistème e λόγος- discorso) come termine fu creato a metà dell’Ottocento per opera del filosofo scozzese J. F. Ferrier, e sta ad indicare principalmente i criteri da seguire per giungere alla conoscenza (Per un esame dell’ignoranza nel corso della storia si rinvia a P. Burke, Ignoranza – Un storia globale, Milano 2023 in cui l’autore «esamina la lunga storia dell'ignoranza dell'umanità attraverso religione e scienza, guerre e catastrofi, affari e politica, e ci rivela storie straordinarie dei promotori e degli avversa», e al commento che ne fa dell’opera G. Pecchinenda, La società dell’ignoranza, in EXagere - Rivista mensile Periodico di contributi e riflessioni di sociologia, psicologia, pedagogia, filosofia, 2023, pagg. 1-4). Aggiungo – riservandomi di approfondire in seguito quanto sto per dire – che non vi può essere conoscenza di qualunque branca del sapere senza lo studio inteso come apprendimento di quanto altri hanno sperimentato in un determinato campo dello scibile. Se poi l’apprendimento dell’esperimento altrui non soddisfa totalmente il nostro bisogno di conoscenza, allora saremo noi a sperimentare altre soluzioni mediante l’azione di ricerca che deve sempre acquistare validità scientifica per essere credibile.
§ II – Lo «studio» e la «ricerca» alla base della nascita della nostra Associazione culturale.
1) Le fonti interne del diritto e dell’economia.
Esaurita l’esplorazione intorno ai concetti di «ignoranza» e «conoscenza», strettamente connessi - e il caso di sottolinearlo? - al pensiero filosofico, qui sfiorato con intento introduttivo alla trattazione che segue, riguardante il diritto e l’economia, discipline eminentemente scientifiche su cui è necessario allargare il discorso.
Se lo studio e la ricerca nel campo dell’economia per i Soci dell’Istituto non conosce teoricamente limiti (non è detto che esso debba essere circoscritto alla sola economia aziendale o privata, ma al contrario può essere esteso anche alla scienza delle finanze, detta anche economia pubblica o economia generale), quello afferente al diritto è consigliabile che sia contenuto alla sola operatività dell’azienda. In altre parole possiamo dire che oggetto dello studio e della ricerca sarà, in senso stretto, il diritto vigente in Italia; in senso ampio, saranno le fonti del diritto sovraordinate al diritto interno, come meglio preciserò in prosieguo, nell’ambito delle quali trova disciplina l’attività aziendale o per essere più precisi l’attività svolta dall’imprenditore.
Anche in seno all’Istituto è opportuno tenere distinto lo studio dalla ricerca, senza che ciò possa costituire un impedimento per il Socio di svolgere entrambe le attività: sarà una scelta, questa, che ciascuno di noi può fare in piena libertà. Né vi sono limiti oggettivi con riferimento alle due discipline (il diritto e l’economia). Una precisazione è però doverosa: il campo giuridico, come quello economico, essendo vasto, lo studio e la ricerca dunque possono costituire un limite soggettivo. Insisto nel dire che, prioritariamente, la scelta operata dal singolo studioso deve, o dovrebbe avere, come finalità o traguardo, l’azienda intesa come complesso organizzato di beni ritenuti strumentali all’esercizio dell’impresa (art. 2555 c. c.) (La mia personale esperienza nel campo dello studio delle scienze economiche è limitata alle materie che circa sessant’anni fa si studiavano al corso per il conseguimento della laurea in Scienze sociali presso la Pontificia Università degli studi San Tommaso d’Aquino in Roma: economia politica, politica economica, statistica metodologica, demografia).
Lo studio del diritto, nelle facoltà di Giurisprudenza, dove ho conseguito l’altra laurea, è completo; esso viene impartito agli studenti che aspirano a diventare giuristi. Quello da indagare nell’ambito del nostro Istituto da parte di chi ha già conseguito il dottorato differisce in quanto le varie discipline giuridiche apprese durante gli anni di frequenza della stessa facoltà sono, o possono (è auspicabile) essere sottoposte a revisione critica dal parte del Socio studioso. Da qui nasce, o potrebbe nascere, e svilupparsi il desiderio della ricerca. Altrettanto dicasi per lo studio delle discipline economiche impartito, oltre che nella facoltà di Giurisprudenza, nella facoltà di Economia, caratterizzata dai vari indirizzi, e anche in quelle di Scienze Politiche, Scienze Sociali e Ingegneria gestionale. Lascio, ovviamente, il compito dello studio e della ricerca ai Soci dell’Istituto laureati nelle predette materie, limitando il mio contributo, in questa sede, alle sole discipline giuridiche in connessione con la gestione aziendale. C’è da precisare che del diritto civile, penale, amministrativo, commerciale e del lavoro si avvale effettivamente anche l’azienda, intesa come strumento attraverso il quale l’imprenditore esercita un’attività economica al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi (art. 2082 c. c.).
Veniamo alle fonti giuridiche. Principio cardine della nostra forma di governo è il lavoro (su cui si fonda la Repubblica democratica, come sancito dall’art. 1 della Carta costituzionale che si caratterizza per la sua rigidità); attività variamente organizzata. La Costituzione è, pertanto, la fonte sovraordinata al diritto interno testè elencato; in essa trova spazio sia l’impresa pubblica sia quella privata. Nell’art. 41 è fissato il principio secondo il quale «l’iniziativa economica privata è libera»; trova, tuttavia, un limite nel suo svolgimento: essa non può essere «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». L’articolo successivo precisa l’appartenenza dei beni economici ad una pluralità di soggetti: Stato, enti, privati, affermando così il fondamento dell’«economia mista», che consente di qualificare l’impresa come pubblica o privata (amplius in V. Cerulli Irelli, L’impresa pubblica nella Costituzione economica italiana, Nota elaborata per il gruppo di studio di Astrid su “La Costituzione economica a 60 anni dalla Costituzione”). Utile l’articolo di S. Cassese, «L’impresa nella costituzione», recensione al volume di S. Ambrosini, «L’impresa nella costituzione» - Introduzione ai corsi di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Torino, 2024, pubblicata il 24 marzo 2024 sul Sole 24 Ore).
Nella fonte codicistica, subordinata alla Costituzione, l’azienda, indipendentemente dalle sue dimensioni, trova compiuta disciplina nel Libro V del codice civile rubricato come «Il lavoro», regolato dai Titoli I- IV; dal Titolo V all’VIII troviamo la fonte giuridica «Delle società e «Dell’azienda»; nel Titolo X quella «Della disciplina della concorrenza e dei consorzi»; infine il Titolo XI racchiude «Le disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati»). Anche nel codice di rito civile, al Libro II, Titolo IV, troviamo le «Norme per le controversie in materia di lavoro» (artt. 409-473).
Fin qui si è accennato alle aziende gestite in forma individuale oppure societaria, avente ciascuna a capo un soggetto privato (imprenditore), la cui funzione è - ripeto - quella di svolgere un’attività economica organizzata in funzione della produzione di beni o servizi; ma il nostro ordinamento – volendo limitaci al diritto interno – contempla anche le aziende originate dall’intervento della mano pubblica in economia, anch’esse di particolare interesse per chi ha deciso di collaborare nell’ambito del nostro Istituto. La fonte che ne stabilisce la differenzazione è contenuta nella Costituzione il cui Titolo III («Rapporti economici»), si articola in varie norme che sanciscono che «i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali» sono determinati dalla legge (art. 41, secondo comma); che «I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati» (art. 42); che determinate imprese, o categorie di imprese, possono essere, ove si ravvisi una utilità generale e in presenza di una previsione legislativa, riservate originariamente o trasferite successivamente allo Stato, mediante espropriazione indennizzata (art.43).
E’ mia opinione (e in quanto tale contestabile), secondo la quale il processo dialettico hegeliano sia applicabile all’economia. La «tesi» che negava la possibilità dell’intervento dello Stato nei processi economici risale alla «rivoluzione industriale» (metà del XVIII secolo), quando si affermò il principio del laisser faire (termine attribuito all’economista francese Gournay, secondo cui i pubblici poteri nessun vincolo possono imporre all’individuo in materia di attività economica. L’«antitesi» si affermò con il sistema di idee elaborate Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), volte a criticare la struttura posta alla base della società capitalistica, e ponendo in essere i concetti di «struttura», «sovrastruttura» e di «forza-lavoro». La «sintesi», infine, è riconducibile geneticamente alla secolare dottrina sociale della Chiesa, compendiata nell’Enciclica Rerum Novarum (1891) «intorno alla condizione operaia», promulgata da papa Leone XIII (1810-1903), che contesta il socialismo, dottrina ritenuta inaccettabile da parte degli operai. La «sintesi» hegeliana è ravvisabile - a mio sommesso avviso - anche nel corporativismo fascista, da distinguere da quello medioevale inteso questo come organizzazione dei vari mestieri esercitati in quei secoli (cfr. G. Bottai, Corporativismo, in Enciclopedia italiana – I Appendice, 1938), ma anche da quello cattolico che ebbe fra i maggiori teorici il teologo tedesco W. E. Von Ketteler (1811-1877), il politico e militare francese R. De La Tour du Pin (1834-1924) e l’economista e sociologo italiano G. Toniolo (1845-1918). Vi è chi, tuttavia, ha visto, oltre alle divergenze che hanno accomunato il cattolicesimo e il regime fascista che ne esaltò il culto dello Stato e la fede cieca nei suoi poteri, anche delle convergenze soprattutto per la comune visione che entrambi ebbero del comunismo e del liberalismo (Per approfondimenti. cfr. M Pasetti, Corporativismi allo specchio. Quattro variazioni nella dialettica tra cattolicesimo e fascismo, in Storica Mente, Laboratorio di storia - Sessione Dossier Fascismo, Chiese e Religioni, a cura di E. Bignami e P. Pinna numero 15 – 2019).
L’utile divagazione che precede introduce alla classificazione delle imprese nella cui organizzazione e gestione è presente a vario titolo lo Stato oppure un altro ente territoriale (regione o comune). Le forme organizzative dell’ordinamento aziendale in cui è investito il capitale pubblico assumono la veste di:
a) Aziende pubbliche di produzione e di erogazione - Società per azioni a partecipazione pubblica – La loro rigida classificazione non è pacifica in dottrina: vi è chi sostiene, marginalmente, l’inesistenza di «aziende composte», che si caratterizzano per il fatto di contenere sia tracce dei processi produttivi sia segni di consumo (vedi M. Nardo, UNICAL, lezione n. 3, 8 marzo 2018). Altri autori fanno rientrare nelle «aziende composte pubbliche» le amministrazioni dello Stato, le Regioni, gli Enti locali, le Aziende sanitarie, gli Enti previdenziali, le Camere di commercio, le Università, le Istituzioni scolastiche (cfr. F. Natale, Facoltà di Economia, Corso di laurea specialistica in Management aziendale. Introduzione al corso di Management delle Aziende di Servizi pubblici – a. a. 2016-2017, pag. 4). Ciò evidenziato, secondo la mia opinione, del resto avallata da un parte della dottrina, la quale sostiene che sul pano definitorio vi sia differenzazione tra l’azienda pubblica e quella privata, di cui si è accennato sopra. Il mio auspicio è, pertanto, che altri Soci dell’Istituto, ne vogliano approfondire gli aspetti, in sede di studio e ricerca. Qui mi limito a sottolineare che la prima apprezzabile differenza riguarda il soggetto giuridico: pubblico o privato, a seconda che l’azienda sia dotata di personalità rientrante nella sfera del diritto pubblico o privato; la seconda differenza attiene ai bisogni che essa è tenuta a soddisfare: produzione ed erogazione dei servizi rientranti nel novero della pubblica utilità, nel primo caso; produzione ed erogazione dei servizi rientranti nella categoria della privata utilità, nel secondo caso.
La casistica delle aziende che trovano disciplina nel diritto pubblico è vasta al punto di non consentirne una trattazione dettagliata in questo scritto, peraltro non necessaria dal momento che l’elencazione e reperibile in Rete. Sicché l’elenco parziale che segue annovera soltanto le società per azioni la cui partecipazione pubblica è totale o maggioritaria (1 - Società per azioni la cui partecipazione è del 100%: Acque del Sud; Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa; Autostrade dello Stato; Cinecittà; Concessionaria servizi assicurativi pubblici; Consip; Enit; Equitalia giustizia; Ferrovie dello Stato italiane; Giubileo 2025; Gestore dei servizi energetici; Investimenti immobiliari italiani- Sgr; Istituto poligrafico e zecca dello Stato; Italia trasporto aereo; Pago PA; Rete autostradale mediterranea; Sace; Società generale di informatica; Sogesid; Società gestione impianti nucleari; Sport e salute; Sviluppo lavoro Italia. 2 – Società per azioni la cui partecipazione è maggioritaria: Asset management company (99,78%); Cassa depositi e prestiti (82,77%) Eur (90%); Istituto per il credito sportivo e culturale (80,44%); Radio televisione italiana (99,56%); Stretto di Messina (55,16%).
b) Enti pubblici economici - Nel nostro ordinamento giuridico, gli Enti in esame si connotano per degli elementi presenti anche nelle società per azioni (esempio: propria personalità giuridica, autonomia patrimoniale, rapporto di lavoro non regolato dal diritto amministrativo). L’attività da essi svolta può essere esclusivamente oppure prevalentemente economica, ma sempre consistente nell’esercizio dell’impresa commerciale in regime di diritto privato (per approfondimenti si rinvia a S. Cassese, voce Ente pubblico economico, in Novissimo Digesto italiano, vol. VI, 1960 pagg. 573 ss.).Il periodo in cui tali soggetti conobbero la maggiore diffusione è stato il decennio 1970-1980 del secolo scorso, quando alcune Aziende (o Amministrazioni) autonome dello Stato furono infatti trasformate in Enti pubblici economici (ne cito alcune: Ferrovie dello Stato; Poste e telecomunicazioni, ANSA, tutte, successivamente, mutate in società per azioni). Ne sono rimasti in vita alcuni, quali l’Agenzia nazionale italiana per il turismo – ENIT; l’Agenzia del Demanio; l’Agenzia delle Entrate-Riscossione; la Cassa per i Servizi Energetici ed Ambientali – CSEA; il Consorzio per le Autostrade Siciliane (art. 16 legge 12 agosto 1982, n. 531); l’Ente nazione risi; la Società italiana degli autori ed editori - SIAE;
c) Gestioni Commissariali Governative – Se i soggetti indicati alle lettere a) e b) si sono caratterizzati per essere la loro attività produttiva o distributiva disciplinata interamente dal diritto privato; la peculiarità dei soggetti qui studiati è stata quella di aver esercitato un servizio, di regola eccezionale e provvisorio, in un solo settore: quello del trasporto pubblico ferroviario e tranviario. In ogni epoca l’uomo ha avvertito la necessità, motivata da varie ragioni, di viaggiare. Lo spostamento a piedi, da una località ad un’altra (fenomeno definito come «nomadismo»), non veniva sottoposta a precise regole di condotta; ma laddove egli necessitava di un qualsiasi «mezzo» che ne agevolasse il viaggio a breve o lunga distanza, allora la sua scelta cominciò a trovare disciplina nel «diritto dei trasporti», cui è da aggiungere il «diritto della navigazione» codificato nel 1942 (vedi r. d. 30 marzo 1942, n. 327; per approfondimenti si rinvia a L Tullio, Dal diritto marittimo e aeronautico al diritto della navigazione ed al diritto dei trasporti, in Diritto dei trasporti, 2004, 1 ss.; P. Fulciniti, Prolegomini alla costruzione del diritto generale dei trasporti, in Diritto dei trasporti, 1/2006, pagg. 1 ss.), e nell’«economia dei trasporti», scienza che studia il trasporto di persone e cose nello spazio, i diversi modi in cui avviene (su strada ordinaria o ferrata, su acqua o per via aerea), nonché l’analisi dei prezzi e delle tariffe, commisurati alle distanze da percorrere nel trasporto urbano, interurbano, continentale e intercontinentale (per una sintesi cfr. R. Danielis, Economia dei trasporti, in Dizionario di economia e finanza, 2012).
L’art. 184 del Testo unico, intitolato «Delle disposizioni di legge per le ferrovie concesse all’industria privata, le tranvie a trazione meccanica e gli automobili») approvato con r. d. 9 maggio 1912, n. 1447, dettava che il Ministero delle Comunicazioni – Ispettorato generale ferrovie, tranvie e automobili, dicastero che ha preceduto la nascita del Ministero dei trasporti – Direzione generale della motorizzazione civile e dei trasporti in concessione, poteva decretare la decadenza della concessione per l’esercizio di una ferrovia pubblica nel caso di interruzione totale o parziale del servizio, cui seguiva il mancato immediato ripristino o qualora l’esercizio stesso fosse statao eseguito con gravi e ripetute irregolarità. Il venir meno del rapporto concessorio, diede origine alle Gestioni Commissariali Governative, con a capo un funzionario (Commissario) dell’amministrazione dei trasporti. (L’istituto di cui trattasi fu ritenuto superato sul finire degli anni del secolo scorso. L’esercizio del trasporto ferroviario locale fu dunque affidato a delle società di capitali (s. r. l.), di proprietà del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, in attesa che avvenisse il passaggio, previo risanamento, alle regioni. Chi scrive fu investito del compito di rappresentare la predetta Amministrazione statale nella procedura finalizzata al passaggio delle elencate ferrovie: Ferrovia Genova-Casella; Ferrovia Centrale Umbra; Ferrovie Padane-Venete; mentre per le Ferrovie delle Calabria, in attesa del trasferimento alla Regione, assunse la funzione di Coordinatore del Comitato di verifica e monitoraggio del trasporto pubblico locale).
2) Le fonti internazionali e comunitarie del diritto e dell’economia.
Alle fonti interne che regolano l’attività delle aziende (diritto ed economia), si sovrappongono, gerarchicamente, quelle internazionali e dell’Unione europea. Il compito di approfondirne i rispettivi limiti, lo demando ai Soci dell’Istituto, che intendano far valere il proprio spiccato interesse per le due discipline. Anticipo qualche riflessione, da intendersi quale spunto per chi vorrà proseguirne lo studio e la ricerca.
Alla base dei rapporti macroeconomici (quali possono essere gli investimenti posti in essere da cittadini di uno Stato nell’ambito di un altro Stato, oppure gli scampi commerciali internazionali), vi è un complesso di regole racchiuse nel «diritto internazionale dell’economia», (amplius in E. Sciso, Appunti di diritto internazionale dell’economia, Tortino, 2007, pag 3 ss.), considerato – da parte della dottrina - «come nuovo settore del diritto internazionale pubblico dotato di autonomia e caratteri propri, tali da giustificare senz’altro uno studio sistematico» (Così G. Sacerdoti, Dirittto internazionale dell’economia, in Enciclopedia Treccani, Diritto on line (2014), e bibliografia ivi citata). Nella sfera di tale branca del diritto orbitano le imprese multinazionali, come tali intese quelle che svolgono la loro attività produttiva o distributiva in più Paesi. La genesi (risalente alla seconda metà degli anni sessanta del novecento) e lo sviluppo di tali imprese (vengono considerate una evoluzione delle grandi imprese nazionali) sono riconducibili allo scenario «caratterizzato dall’ipercompetizione e dalla globalizzazione dei mercati» (Così A. Ferraris, La gestione delle imprese multinazionali e le principali dinamiche e sfide international business, Torino, 2016, pag. 1).
A seconda delle loro caratteristiche produttivi, le imprese multinazionali si dividono in: a) «orizzontali», quando i loro stabilimenti sono collocati in una pluralità di Paesi e le merci prodotti sono somiglianti; b) «verticali», quando i loro impianti, collocati in più Paesi, producono merci impiegate come materie prime in altri stabilimenti aventi sede in altri Paesi; c) «diversificate», quando gestiscono in vari Paesi impianti produttivi non collegati tra di loro orizzontalmente, né verticalmente e neppure direttamente o indirettamente, producendo prodotti diversificati a seconda dei Paesi (cfr. cfr. A. Ferraris, op. cit., pag. 3). Le imprese multinazionali posseggono due requisiti: il primo, «strutturale», afferisce all’organizzazione della singola azienda sotto forma di gruppo, con la presenza di una società capogruppo che detiene la maggioranza dei voti spettanti agli azionisti o, in alternativa, il diritto di nomina della maggioranza dei componenti degli organi direttivi amministrativi delle società dipendenti, aventi la sede sociale in località diverse dalla propria (cfr. A. Ferraris, op. cit., pag. 3; G. Barba Navaretti, A. J. Venables, Le multinazionali dell’economia mondiale, Bologna, 2006, pag. 12); il secondo è di carattere gestionale- imprenditoriale: le attività svolte nei vari Paesi sono gestiti con metodo unitario e centralizzato (cfr. A. Ferraris, op. e pag.. cit.; S. Sciarelli, L’impresa multinazionale, Napoli, 1972, pag. 29).
Un aspetto non trascurabile dell’impresa multinazionale attiene alla sua «responsabilità sociale», concetto la cui definizione non è univoca, giacché esso «non assume lo stesso significato per ciascun individuo a causa delle molteplici dimensioni che possono essere ricomprese nel fenomeno» (così, M. Caroli - C. Tantalo, Rapporto di ricerca – La responsabilità sociale dell’impresa nel quadro delle «linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali» - Un focus sulle piccole e medie imprese, pubblicato dalla LUISS Carlo Guidi, s. d., pag. 37). Di certo non è estranea alla responsabilità sociale dell’impresa, la «globalizzazione» dei rapporti economici, «i nuovi modelli organizzativi», cui si sommano le «tecnologie digitali» e l’«Informazione tramite internet» (cfr F. Borgia, Responsabilità sociale dell’impresa e diritto internazionale: tra opportunità ed effettività, in Ianus Diritto e finanza, Rivista di studi giuridici dell’Università di Siena, n. 2 e 3, 2010, pag. 2). Forse è opportuno accennare, per completezza espositiva, alla «sostenibilità aziendale», intesa come modello di sostentamento dell’impresa nel lungo periodo, prestando la massima attenzione all’ambiente e al benessere sociale. Essa è fondata sui tre ben noti pilastri (ambientale, sociale, economico), enunciati nel «Rapporto della Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo» del 1987, dal nome dalla coordinatrice della Commissione stessa, la norvegese Gro Harlem Brundtland (amplius M. Saviano – S. Cosimato – M. Lettieri, Dalla responsabilità sociale d’impresa all’impresa sostenibile – Schemi interpretativi e approcci operativi, Torino, s. d.).
Il sistema giuridico dell’Unione europea (inteso come diritto comunitario) è costituto dall’insieme di norme che disciplinano l’organizzazione e i rapporti tra gli Stati membri e la stessa Unione. Come fonte del diritto, quello dell’Unione europea è - al pari di quello internazionale - sovraordinato al diritto interno di ciascuno degli Stati che ne fanno parte, A tale riguardo, l’art. 117, primo comma, della nostra Carta costituzionale, dispone che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»; sicché, in caso di conflitto del diritto interno con quello comunitario nella regolamentazione di una qualsiasi materia o rapporto giuridico, prevale il secondo sul primo, sia sul piano sostanziale che sul piano processuale, come è ormai acclarato sia in dottrina sia giurisprudenza -
E’ opportuno ricordare che le fonti del diritto comunitario si distinguono in «fonti primarie», rappresentate dai Trattati istitutivi della Comunità Europea, che ne attribuiscono competenze e poteri, e in «fonti derivati, quali i «regolamenti» (qualificati dall’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea come atti giuridici vincolanti, generalmente, in tutti i loro elementi e direttamente applicabili nei Paesi membri); «direttive» (anch’essi atti giuridici adottati dalle istituzioni dell’Unione in conformità ai Trattati, che, a differenza dei «regolamenti», occorre che siano recepiti dai singoli Stati membri affinché diventino leggi vigenti negli stessi Stati); «decisioni» (sempre qualificati come atti giuridici vincolanti nei confronti dei soli Paesi destinatari); «raccomandazioni» e «pareri» (sono due forme di atti dell’ U. e., non vincolanti e privi di conseguenze legali nei confronti degli Stati aderenti, aventi la funzione di indicare la corretta interpretazione del diritto comunitario)
Al diritto comunitario si accompagna – in materia di attività economica - il principio della «libertà d’impresa» sancito dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a condizione che essa libertà sia conforme al diritto dell’Unione e alla legislazione e prassi nazionali. E’ un campo in cui vi è (vi sarebbe) molto da indagare, precisando, nondimeno, che non è questa la sede idonea per tale indagine. Gli accenni che seguono possono comunque costituire uno stimolo per gli altri studiosi che aderiscono alle finalità dell’Associazione.
A parere di qualche studioso, Il termine «libertà d’impresa» non trova però spazio nelle fonti del diritto italiano: nella Costituzione e nelle leggi ordinarie, anche a livello regionale, il riferimento è invero alla «libertà di iniziativa economica», che concettualmente ha una portata più ampia. L’assenza di sovrapponibilità dei due concetti, in definitiva rende errato considerarli sinonimi. Si reputa che la «libertà d’iniziativa economica» contenga non solo la «libertà d’impresa» ma qualsiasi attività avente rilevanza economica (sul punto vedi V. Salvatore, La libertà di impresa, una prospettiva del diritto comparato - Studio fatto su richiesta dell’Unta «Biblioteca di di diritto comparato», Direzione generale dei Servizi di ricerca parlamentare (DG EPRES), Segreteria generale del Parlamento europeo Servizio di Ricerca del Parlamento europeo, pubblicato nel luglio 2024, pag. 74).La «libertà d’impresa» - per chiudere l’argomento – prende in considerazione altre liberta «che qualificano la libertà di impresa e al tempo spesso ne rappresentano manifestazioni in relazione a specifiche attività», quali la «libertà di commercio» e la «libertà d’industria» di cui all’art. 513 del c. p. (così V. Salvatore, op. cit., pag. 75).
Rimangono da esaminare due questioni legate all’impresa nella disciplina comunitaria. La prima si riferisce all’art. 86 (ex art. 90), secondo comma, del Trattato istitutivo della Comunità europea la quale sottopone alle norme dello stesso Trattato, e in particolare alle regole della concorrenza, entro i limiti ivi previsti, le imprese che gestiscono servizi d’interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale. La norma puntualizza che «lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità» (Sulla nozione di servizi d’interesse economico generale nell’ambito dell’Unione europea, la letteratura è piuttosto vasta. Mi limito a citare: V. Di Comite, La nozione di imprese nell’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, in Giurisprudenza italiana, 2004; R. Ursi, L’evoluzione della nozione di servizio di interesse economico generale nel processo di integrazione europea, in Nuove autonomie, 2002, pagg. 143 ss.; M. T. Cirinei, Liberalizzazioni, servizi di interesse economico generale, e sussidi incrociati: la direttiva della commissione 2000/52/Ce e il nuovo ambito della «disciplina trasparenza, in Diritto commerciale internazionale, 2001, pagg. 281 ss.; L Perfetti, Servizi di interesse economico generale e pubblici servizi (sulla comunicazione della commissione europea relativa ai servizi di interesse generale del 20 settembre 2000, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2002, pagg. 479 ss.. La seconda questione riguarda gli aiuti concessi dagli Stati, disciplinati dall’art. 87 (ex art. 92) del Trattato sopra ricordato, il quale dispone che «Salvo deroghe contemplate dal presente trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza».(la norma stessa poi elenca, ai paragrafi 2 e 3, quali aiuti di Stato sono compatibili con il Mercato comune, o possono essere considerarti compatibile con lo stesso Mercato)
§ 3 – Conclusioni.
Quanto possa essere utile questo mio scritto non spetta a me stabilirlo. Partendo dalla «socratica» ignoranza, attraverso un virtuale cammino che abbraccia il diritto e l’economia, scienze entrambi funzionali all’azienda (o impresa), credo (o spero) di avere, in minima parte, sollecitato l’interesse dei Soci dell’ Istituto a proseguire nello studio e nella ricerca su cui ho basato la mia (forse visionaria) decisione di costituire l’Associazione culturale alla quale essi hanno volontariamente aderito. Ma spero anche che il lavoro svolto dai Soci possa essere di estrema utilità per chi ci segue attraverso la Rete.
Per dare input allo studio e alla ricerca è anzitutto necessario che vi siano delle menti disposte a collaborare con l’Istituzione nata il 10 ottobre 2024: siffatto compito è affidato ai Soci («Fondatori», «Co-Fondatori», «Ordinari» e anche «Onorari»). Ma ciò non basta: occorre in aggiunta che essa venga messa in condizione di disporre di spazi in cui organizzare al meglio l’ attività contemplata dallo Statuto. Questa secondaria necessita può realizzarsi mercé l’intervento di alcuni organi della pubblica amministrazione (esempio: l’Assessorato alla cultura del Comune di Roma), concedendo in comodato all’Associazione culturale un idoneo locale. Chi la rappresenta si farà pertanto carico di interpellare gli Uffici competenti, perorandone la causa.
Last but not least: ammettere, prima possibile, in qualità di «Soci Sostenitori» (come d’altronde previsto dallo Statuto) persone fisiche e giuridiche disposte a finanziare le attività e i servizi da organizzare. Studiare, dunque, le opportune strategie per rendere visibile l’Associazione a detti soggetti.
L'ignoranza è come la maledizione di Dio. Il sapere mette le ali per volare in alto
W. SHAKESPEARE
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